La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 150/2020, dichiara incostituzionale l'art. 4 D.Lgs. 23/2015 (cosiddetto “Jobs Act”). Più poteri al giudice per determinare l'indennità, partendo dall'anzianità e valutando altri criteri.
“Il criterio di commisurazione dell'indennità da corrispondere per i licenziamenti viziati sotto il profilo formale o procedurale, ancorato in via esclusiva all'anzianità di servizio, non fa che accentuare la marginalità dei vizi formali e procedurali e ne svaluta ancor più la funzione di garanzia di fondamentali valori di civiltà giuridica, orientati alla tutela della dignità della persona del lavoratore. Soprattutto nei casi di anzianità modesta, si riducono in modo apprezzabile sia la funzione compensativa sia l'efficacia deterrente della tutela indennitaria: la soglia minima di 2 mensilità non è sempre in grado di porre rimedio all'inadeguatezza del ristoro riconosciuto dalla legge”.
Queste, in estrema sintesi, le motivazioni contenute nella sentenza n. 150 del luglio 2020 con cui la Corte Costituzionale, accogliendo le questioni sollevate dai Tribunali di Bari e di Roma, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 4 D.Lgs. 23/2015 (cosiddetto Jobs Act) dove fissava l'indennità in un importo pari a una mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio.
Una decisione che dà continuità alla sentenza 194/2018, che dichiarava l'incostituzionalità del meccanismo di determinazione dell'indennità dovuta per i licenziamenti privi di giusta causa o di giustificato motivo oggettivo o soggettivo (art. 3 D.Lgs. 23/2015).
La sentenza spiega che le prescrizioni formali, relative all'obbligo di motivazione del licenziamento e al principio del contraddittorio, “rivestono un'essenziale funzione di garanzia, ispirata a valori di civiltà giuridica” e “sono riconducibili al principio di tutela del lavoro, enunciato dagli artt. 4, c. 1, e 35, c. 1 Cost., in quanto si prefiggono di tutelare la dignità del lavoratore”.
La rigida predeterminazione dell'indennità, sulla base della sola anzianità di servizio, vìola i 2 articoli della Costituzione appena citati, che tutelano “la giusta procedura di licenziamento, diretta a salvaguardare pienamente la dignità della persona del lavoratore”.
Violato appare inoltre il principio di ragionevolezza, che si esprime come esigenza di una tutela adeguata: occorre attribuire “il doveroso rilievo al fatto, in sé sempre traumatico, dell'espulsione del lavoratore, attraverso il riconoscimento del giusto ristoro e la salvaguardia di una efficace funzione dissuasiva della tutela indennitaria”.
In relazione all'art. 3 della Costituzione, infine, la Corte ha osservato che la norma in questione, “nell'appiattire la valutazione del giudice sulla verifica della sola anzianità di servizio, determina un'indebita omologazione di situazioni che, nell'esperienza concreta, sono profondamente diverse”, in contrasto con il principio di eguaglianza.
Deve spettare, invece, al giudice la facoltà di determinare l'indennità, partendo dall'anzianità di servizio, “che rappresenta la base di partenza della valutazione”, senza trascurare altri criteri desumibili dal sistema (come ad esempio la gravità delle violazioni, il numero degli occupati, le dimensioni dell'impresa, il comportamento e le condizioni delle parti, ecc.).
La Corte conclude invitando il legislatore a “ricomporre secondo linee coerenti una normativa di importanza essenziale, che vede concorrere discipline eterogenee, frutto dell'avvicendarsi di interventi frammentari”.
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