Il divieto di licenziamento tra deroghe e perplessità


Una misura drastica e controversa, giudicata imprescindibile da alcuni, inutile da altri.
Il D.L. 14.08.2020, n. 104, meglio noto come “Decreto Agosto”, ha disposto una proroga al divieto di licenziamento introdotto dalla normativa d’urgenza legata al coronavius ed entrato in vigore il 17.03.2020.
Tuttavia, il blocco generalizzato, valido per qualsiasi provvedimento espulsivo dettato da ragioni economiche, è stato reso flessibile oppure differito nel tempo come nel caso dell’esaurimento delle 18 settimane di ammortizzatori sociali richiedibili dal 13.07 al 31.12.2020.
Il maggiore elemento di flessibilità, sancito dal Decreto Agosto, è sicuramente quello di porre deroghe a un divieto che secondo molti giuristi è inammissibile, presentando profili di incostituzionalità.
La prima deroga riguarda quei provvedimenti motivati dalla definitiva cessazione dell’attività imprenditoriale oppure derivanti dalla messa in liquidazione senza continuazione, neppure parziale, dell’attività medesima.
La seconda è ammissibile in caso di accordo aziendale di risoluzione contrattuale stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale che, tuttavia, garantisce ai lavoratori il beneficio della NASPI.
È, infine, ammessa la possibilità di intimare il licenziamento qualora l’azienda fallisca e non sia previsto l’esercizio provvisorio.
Accanto a queste 3 ipotesi previste dal legislatore ve ne sarebbe un’altra frutto di analisi interpretativa. Secondo alcuni esperti anche le procedure di licenziamento collettivo ante coronavirus e non riconducibili alla pandemia, possono riprendere vigore col Decreto Agosto e ciò in un quadro normativo teso a rendere compatibile il principio di deroga con ipotesi di cessazione o impossibilità di continuazione di esercizio dell’impresa che prescindano dall’emergenza sanitaria di questi giorni.
In ogni caso, il divieto di licenziamento costituisce una misura drastica, storicamente adottata solo nell’immediato dopoguerra, e che suscita feroci dibattiti: da una parte è giudicata imprenscindibile per prevenire possibili abusi in un periodo eccezionale; dall’altra è considerata una restrizione inaccettabile poiché lesiva della libertà di impresa.
Al di là delle questioni di principio, i dubbi maggiori riguardano la sua effettiva utilità.
Nonostante il blocco, il mercato del lavoro italiano ha registrato tra febbraio e giugno una flessione di 600.000 occupati. Forse senza il divieto in questione la perdita occupazionale sarebbe stata maggiore, o forse anche no. Basti pensare che quando licenziare diventa più difficile, le imprese sono naturalmente molto più restìe ad assumere.
Inoltre, licenziare comporta costi non trascurabili, mentre un accesso alla cassa integrazione rapido e senza oneri rende molto più vantaggioso trasferire il costo del lavoro sullo Stato, evitando investimenti su ricerca e personale.
Ne valeva la pena porre questo divieto?



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